Se l’ultimo ventennio è stato caratterizzato da una delocalizzazione selvaggia – fenomeno in cui un numero ampissimo di aziende italiane ha scelto di delocalizzare le proprie produzioni oltre confine, soprattutto nell’est europeo e nel sudest asiatico – il periodo più recente fa registrare un’interessante inversione di tendenza, per cui alcune aziende italiane scelgono di fare la strada al contrario e reinsediare tutta la produzione, o solo alcune parti, nel nostro Paese.

Su questo fenomeno c’è un vivissimo dibattito soprattutto negli Stati Uniti, come testimoniano le notizie riportate sul sito della “Reshoring Initiative” (http://www.reshorenow.org). Del tema si parla molto anche in Europa, dove si studiano e realizzano misure per favorirlo.

 

I Numeri

Secondo “Uni-CLUB Back-Reshoring”, il gruppo di ricerca interuniversitario italiano che si occupa di studiare questa dinamica, l’Italia sarebbe il primo paese in Europa per “ritorni manifatturieri”, rappresentando il 60% dei casi censiti in Europa dal 2007 al 2012.

Durante questo periodo, infatti, si sono registrati almeno dieci casi di rilocalizzazione all’anno, arrivando a quota 79 a fine dicembre 2013.

Non una cifra che possa far gridare al miracolo, certo, né definire una tendenza vera e propria, ma comunque sufficiente per intuire che si tratti di qualcosa di più di una semplice coincidenza.

Ma quali sono le ragioni di questi ritorni? 
L’indagine condotta dal gruppo di ricerca Uni-CLUB ha previsto un’interrogazione agli imprenditori che hanno effettuato questa scelta; le principali motivazioni sono le seguenti:

  • Il 42% ha risposto che la ragione principale del ritorno è l’effetto positivo che ha il made in Italy sul consumatore, associato a prodotti di buona manifattura
  • il 24% ha indicato come motivazione per operazioni di back-shoring lo scarso livello di qualità della produzione off-shored
  • per il 21% è la necessità di un’attenzione maggiore verso i bisogni del clienti
  • per il 18% la pressione sociale nel paese
  • per il 16% il fatto che ci sia un più elevato livello di competenze nel Paese d’origine
  • per il 13% la disponibilità di capacità produttiva a seguito della crisi economica nel Paese di origine e la riduzione del divario del costo del lavoro
  • infine, per l’11%minori costi logistici nel Paese d’origine.

 

I Vantaggi del Reshoring

Questo fenomeno potrebbe rappresentare una grande opportunità sia a livello Paese che a livello della singola impresa per i seguenti motivi:

  • Creare nuovi posti di lavoro
  • Rafforzare la nostra economia riducendo le importazioni ed incrementando le esportazioni
  • Rafforzare il nostro sistema industriale
  • Migliorare la qualità dei beni prodotti: se i beni vengono realizzati nella propria nazione è infatti possibile effettuare maggiori controlli qualitativi
  • Diminuire il rischio di perdita del know how, cioè le conoscenze e le competenza tecnico-operative di un’azienda e di interi distretti
  • Sviluppare politiche di just-in-time, riducendo dunque le scorte a magazzino (e la relativa onerosa gestione), in quanto i beni hanno un catena produttiva più snella e concentrata in un unico paese che ne rende più veloce la produzione
  • Migliorare l’immagine aziendale. È ben noto infatti quanto il made in Italy conferisca un valore aggiunto al prodotto e sia considerato sinonimo di garanzia e qualità.
  • Ottimizzazione dei costi logistici: i continui incrementi del prezzo della benzina comportano un importante aumento del costo dei trasporti dei materiali e delle trasferte necessarie per controllare i siti de localizzati

 

Riportare la produzione in Italia non basta…

È dunque importante credere in questa strategia, ma, affinché sia efficace, servono anche riforme, cambiamenti e un orientamento più forte verso l’innovazione. Il backshoring che ci dovrebbe interessare è, infatti, quello che si fonda sulla possibilità di realizzare, come suggerisce l’Economist, impianti fortemente innovativi sia nei processi che nei contenuti dei prodotti, dove la rilevanza del costo del lavoro sia ridimensionata e utilizzata solo per elementi ad alto contenuto artigianale, dove vale ancora il know-how del made-in-italy.

Per il nostro paese, quindi, la possibilità di far rientrare attività manifatturiere in modo stabile e tale da sostenere un nuovo ciclo di crescita, è legata a doppio filo ad un abbandono di un modello di sviluppo fondato sull’inseguimento di vantaggi di costo e sul riposizionamento verso mercati di fascia medio-alta che valorizzino, appunto, le nostre competenze.

In conclusione, dunque, crediamo che la nuova rivoluzione industriale (di cui abbiamo già parlato in un precedente articolo), combinata con la nostra maestria artigianale e lo stile che da sempre caratterizza i nostri prodotti, possano essere la formula vincente per riportare l’Italia nella posizione di leadership nell’industria manifatturiera di alta qualità, a condizioni efficienti.

 

I 9 CASI PRINCIPALI

Di seguito l’esempio di nove aziende italiane che hanno deciso di rilocalizzare le proprie produzioni:

– And Camicie è un marchio di camiceria che fa capo al gruppo Columbia di Mirano (Venezia). L’azienda produceva in Cina per servire il mercato locale, e nel 2013 ha stretto un accordo con Wahaha Group, un colosso del settore beverage che progetta di aprire 20 nuovi centri commerciali (denominati Waow Plaza) in diverse città cinesi. L’intesa prevede che il produttore veneto di camicie possa aprire all’interno di questi 20 mall altrettanti negozi monomarca. Ma a una condizione: la produzione dei capi deve avvenire interamente in Italia, perché la nuova classe media cinese, molto più esigente che in passato, accetta di spendere di più per un prodotto italiano solo se questo è made in Italy al 100% e la qualità è impeccabile.

– Aku è un produttore veneto di calzature da trekking e outdoor che, dopo aver portato gran parte della produzione in Romania, nel 2010 ha deciso di riaprire lo stabilimento di Montebelluna (Treviso) per realizzare i modelli di qualità più alta. A questo proposito va ricordato che l’intero settore dell’abbigliamento sportivo made in Italy si è dimostrato particolarmente sensibile all’inversione di rotta.

– Masters è un’altra azienda attiva nel ramo dell’abbigliamento sportivo (iscritta ad Assosport) che ha deciso di tornare sui propri passi e ri-insediare alcune lavorazioni in Italia. La società, tra le maggiori al mondo per la produzione di bacchette da sci, trekking e nordic walking ha ritrasferito nel 2013 a Bassano del Grappa (Vicenza) la realizzazione dei tubi in alluminio che prima era stata spostata in Cina.

– Fiamm è il maggior produttore italiano di batterie per automobili. Negli anni scorsi aveva aperto stabilimenti in India e in Repubblica Ceca. Ma una volta realizzato che il personale del posto non riusciva a raggiungere gli standard di qualità italiani, l’azienda guidata da Stefano Dolcetta ha scelto di fare dietrofront. Concentrare il più possibile le lavorazioni in pochi stabilimenti fa parte anche di un piano strategico secondo il quale la produzione e la ricerca e sviluppo devono essere vicini per poter reagire più velocemente  alle evoluzioni della domanda e spendere meno possibile per il coordinamento dei reparti. L’innovazione è più efficace se è a chilometro zero.

– Nannini è un importante produttore toscano di borse in pelle. Da tre anni a questa parte l’azienda ha messo in atto un processo di rilocalizzazione della produzione affidata a terzisti dell’Europa dell’Est. E a partire dalla stagione in corso, la primavera-estate 2014, la collezione sarà interamente prodotta in Italia. In questo caso i motivi del rimpatrio sono da ricercare nell’eccellenza delle lavorazioni artigianali, che in Italia sono particolarmente pregiate, e la necessità di controllare da vicino la qualità dei prodotti.

– Piquadro, azienda toscana produttrice di borse e valigie, ha riportato in patria (dalla Cina) la fascia più alta delle lavorazioni. Paradossalmente, a spingere l’impresa verso la rilocalizzazione è stato soprattutto l’aumento del costo del manodopera. In Cina, nel settore in cui è attiva Piquadro, i costi del lavoro sono saliti in tre anni di quasi la metà.

– Hella Svb, casa piemontese produttrice di abbigliamento femminile, ha deciso di tornare a produrre in Italia dopo aver delocalizzato in Romania. In questo caso uno degli stimoli a fare marcia indietro è venuto da un particolare strumento di politica regionale: la legge 34 del 2004 della Regione Piemonte, che propone il contratto di insediamento (con finanziamenti, agevolazioni e snellimenti burocratici) per attrarre aziende sul territorio.

– Natuzzi è un noto marchio dei divani made in Italy. L’azienda pugliese ha firmato nel 2013 un accordo, definito “storico” da parte dei sindacati coinvolti nelle trattative, che prevedeva il ritorno in Puglia e Basilicata di alcune produzioni di fascia alta effettuate in Romania.

– Wayel, azienda emiliana specializzata in bici elettriche, ha ritrasferito dalla Cina a Bologna la sua produzione. In questo caso, a far optare verso la delocalizzazione al contrario sono stati soprattutto la vicinanza con i mercati nord-europei (i più interessati alle bici elettriche) e la possibilità di fare ricerca a contatto con l’Università di Bologna.

 

Fonti:

http://www.greenville.it/viewdoc.asp?co_id=162

http://www.quifinanza.it/8547/lavoro/a-volte-ritornano-ecco-aziende-che-rilocalizzano-in-italia.html?refresh_ce

http://www.greenreport.it/news/economia-ecologica/reshoring-le-aziende-ritornano-anche-in-italia-ma-le-teste/

http://www.logisticamente.it/Articoli/7837/La_rilocalizzazione_in_Italia_e_nel_mondo_definizione_e_ragioni_di_una_tendenza.aspx

http://www.economist.com/news/special-report/21569570-growing-number-american-companies-are-moving-their-manufacturing-back-united